La
chiesa di Santa Felicita, intitolata a una martire del cristianesimo primitivo
(II secolo), è tra i luoghi di culto più antichi della città
e riporta agli inizi della fede cristiana a Firenze. Nella sua lunga storia
è stata basilica cimiteriale (IV-V secolo), chiesa per l’attiguo
convento di monache benedettine (dal X secolo), chiesa prima e parrocchia
poi della corte granducale (dal XVI secolo).
Ma vediamo con ordine.
Le origini
I primi cristiani sulle
rive dell'Arno furono orientali, così come lo furono le due figure
primarie della Chiesa Fiorentina: Miniato "Re degli Armeni",
martirizzato a Firenze nel 250 durante la persecuzione di Decio, e Zanobi,
di famiglia greco-siriaca, il grande vescovo del V secolo.
Ora ci piace
pensare che la chiesa di Santa Felicita (certo non quale adesso ci appare)
sia stata la prima di Firenze: per quanto la dimostrazione di una simile
tesi risulti praticamente impossibile, non occorre molto coraggio per
sostenerla visto che è impossibile anche dimostrare il contrario
e che, comunque, la sua storia comincia davvero da molto lontano. Certamente
è la prima chiesa fiorentina di cui esistono testimonianze archeologiche
ed epigrafiche che risultano precedenti la fondazione della seconda, anch'essa
fuori mura e consacrata nel 393 da Sant'Ambrogio, Vescovo di Milano: San
Lorenzo.
In
una piccola Firenze, ancora chiusa dentro le mura romane a difendere le
case di cittadini già dediti soprattutto al commercio, con un impero
ormai tollerante verso la nuova religione dettata da Cristo trecento anni
prima, venivano fondate alcune basiliche cristiane: dentro le mura, dunque,
i templi dedicati agli dei pagani e fuori le prime case di Cristo: quella
di San Lorenzo e la nostra che sarebbe poi stata dedicata ad una martire
orientale: Santa Felicita. Venne a trovarsi subito al di là dell'Arno
a fianco della strada che, uscendo dal primitivo Ponte Vecchio, se ne
andava verso Roma.
Di
quella basilica, durante alcuni lavori compiuti nel 1933 sotto la piazza,
furono ritrovate tracce consistenti delle fondazioni, di murature in pietra
forte intonacata all'interno e basi di pilastro. Intorno a questa basilica
a fianco della "via romana" i primi cristiani di Firenze seppellivano
i loro morti in piccole, semplici tombe "alla cappuccina" coperte
di embrici. Sulla tomba veniva posta una semplice lapide con sopra il
nome del sepolto.
Alcune di quelle lapidi sono adesso murate sulla parete sinistra del corridoio
d'ingresso alla parrocchia. Molte sono scritte in greco perché
nel quinto secolo dopo Cristo nell'impero romano Bisanzio aveva già
preso il sopravvento su Roma, a Bisanzio si parlava greco e greci bizantini
(siriani) furono molto probabilmente i primi cristiani di Firenze. Le
tombe non erano tutte sotto la piazza: alcune sono rimaste sotto il pavimento
attuale della chiesa.
Ma perché tutta questa roba si trova così in basso?
È una domanda alla quale molti studiosi
hanno risposto in maniera sbagliata: alcuni erano erano perfino convinti
che quelle tombe e quelle mura appartenessero a delle catacombe.
Ma la ragione è del tutto diversa: l'Arno all'altezza del Ponte
Vecchio è oggi molto stretto e corre tra le alte mura dei lungarni
che furono costruite per trovare ulteriore spazio alla città di
qua e di là d'Arno in una successione continua di lavori. Nel quarto
secolo, invece, la sezione dell'alveo doveva essere del tutto diversa
(si pensi che l'Amo era allora tutto navigabile) e a Firenze, proprio
accanto all'unico ponte ancora di legno, c'era il porto dove ancora attraccavano
le barche che andavano e venivano tra il mare Tirreno e la città.
Qui, dunque, il terreno saliva piano piano, proprio
come continua a fare non appena si esce dalla città e, dunque,
all'altezza di Santa Felicita era molto più basso di ora: ad una
quota di poco più bassa di quella cui si trovano i resti dell'antico
cardo maximus ancora oggi visibili in una cantina di via Porta
Rossa. Allora immaginiamoci: le mura della città romana piena dei
fiorentini e dei pochi greci rappresentanti lo stato di Bisanzio, la strada
per Roma che esce dalla porta, attraversa il ponte e sale lentamente verso
la quota che oggi ha via Guicciardini, passando, da questa parte dell'Arno,
davanti a poche case a destra e a sinistra e a quella vecchia basilica
in mezzo all'antico cimitero. Tutto, come abbiamo detto, fuori delle mura,
indifeso.
Con la definitiva decadenza dell'impero
romano quelle costruzioni rimasero facili vittime degli assedi e delle
devastazioni di Goti e Longobardi che finirono col prendere possesso di
Firenze. A queste vicende, molto probabilmente, si deve la distruzione
della basilica paleocristiana.
La chiesa protoromanica
Ma
i fedeli fiorentini non intesero restare a lungo senza la loro chiesa
e la ricostruirono subito accanto alla prima. In
mezzo alle tombe alla cappuccina, sotto il pavimento di Santa Felicita,
si possono vedere anche le impronte delle colonne di quella seconda chiesa,
le fondazioni di un muro semicircolare che dovette esserne l'abside ed
il pavimento di una cappellina che, anche allora, si trovava sotto il
pavimento della chiesa: molto probabilmente la "cripta".
Guardate il disegno qui accanto: come si vede questa chiesa fu più
piccola della precedente basilica, forse troppo per le ambizioni dei fiorentini
di là d'Amo che, nel frattempo, andavano diventando sempre più
numerosi e che, forse, in quella chiesetta non ci stavano più.
Le prime notizie che se ne hanno risalgono
solo al 972 e non sono allegre: si trovano in un documento che lamenta
il modo in cui il vescovo Sichelmo teneva le sue chiese: come Santa Felicita
che era stata ceduta al prete Orso il quale l'aveva lasciata in eredità
ai suoi parenti che la trascuravano completamente.
E così: un po' perché era
diventata troppo piccola e un po' perché era tenuta così
male, intorno alla metà dell'undicesimo secolo, si trovarono la
voglia e i soldi per costruirne un'altra più grande, questa volta
annessa allo stesso monastero che da qualche anno (il 1055), papa Niccolò
II (già Vescovo di Firenze) aveva rifondato e consacrato per le
monache benedettine che, sicuramente, si lamentavano presso il papa delle
condizioni miserevoli in cui versava la "loro" chiesa.
La chiesa romanica
Per
non restare senza chiesa nel periodo della costruzione, la nuova fu fatta
lì vicino, subito accanto, orientata diversamente, con la porta
d'ingresso rivolta verso l'Arno, che guardava le mura di Firenze che ancora
non si estendevano da questa parte del fiume (questo orientamento non
canonico fu comune a tutte le chiese monastiche fiorentine nate fuori
mura che tennero la porta aperta verso la città, evidente invito
ai fiorentini ad entrarvi).
Il 7 novembre del 1059 lo stesso papa Niccolò
II consacrò il nuovo monastero e la nuova chiesa che egli aveva
fatto edificare in luogo dell'altra che per la negligenza dei nostri
predecessori è distrutta e i suoi beni delittuosamente rubati
(Bolla di Niccolò Il dell'8 gennaio 1060). La vecchia chiesa solo
allora fu demolita.
La nuova si trovava proprio al posto del cortile dal quale oggi si passa
per entrare in canonica: il muro dove si trova il portone d'ingresso,
molto probabilmente, era quello della sua facciata e l'altro, a destra,
(che sotto l'intonaco fa vedere delle belle pietre squadrate) quello del
fianco destro.
Di questa chiesa, di epoca e stile romanici, oggi restano solo pochi ma
notevoli resti incorporati nelle case e nei locali di servizio in piazza
Santa Felicita: tre colonne in rocchi di marmo verde, con capitelli romanici
di buona fattura, due delle quali sostengono ancora una volta a crociera
che si appoggia dall'altro lato su due peducci. Questi elementi, tutti
insieme, ci fanno immaginare una chiesa di una discreta importanza.
Essa rimase aperta al culto fino al secolo tredicesimo
e si può pensare che venisse abbandonata in seguito alla grande
pestilenza del 1348, quella raccontata dal Boccaccio: in quegli anni terribili
alcune chiese fiorentine, non essendo più frequentate dai fedeli
per paura del contagio, furono usate come ospedali per il ricovero degli
appestati. Le sacre funzioni si tennero ai quadrivi dove, per questo motivo,
sorsero molti dei bei tabernacoli fiorentini che permisero ai fedeli di
assistere alle funzioni standosene alla finestra, senza uscire di casa.
Precauzioni di ordine igienico portarono poi a coprire i morti sotto strati
di calce viva proprio in quelle chiese che li avevano accolti da ammalati
e sotto i cui pavimenti erano poi stati sepolti. Simili depositi cimiteriali
sono stati ritrovati anche nell'area della nostra chiesa romanica in occasione
di scavi eseguiti dai proprietari delle case che ora vi sorgono.
La
chiesa gotica
È
dunque probabile che sia stata la peste l'occasione per abbandonare l'antico
edificio romanico e le suore del convento, appena trovata in Costanza
de' Rossi la persona disposta a finanziare i nuovi lavori, decisero per
la ricostruzione della chiesa nella sua antica posizione (quella della
chiesa protoromanica).
La
chiesa gotica dovette esser consacrata tra il 1348 e il 1354. La sua facciata
si presentava più bassa dell'attuale, con una grande finestra centrale,
ancor oggi esistente ma poco visibile perché quasi nascosta dalla
galleria che sarebbe stata costruita dal Vasari nel 1500, della quale
parleremo più avanti. I tre stemmi dei Guicciardini che vi sono
rimasti, testimoniano dell'andamento dell'antico tetto a due falde.
La chiesa dovette essere tutta intonacata
con pietra a vista solo negli angoli. Una ricostruzione di massima, basata
sulle indicazioni ricavabili dal rilievo e dai reperti, porta a disegnare
la pianta che si vede qui accanto. La
chiesa gotica ebbe dunque una sola navata (come ora), il transetto con
cinque cappelle absidali di cui la centrale (quella dell'altare maggiore)
leggermente più larga, separate da setti murari due dei quali sono
rimasti, con parte dei loro affreschi (ora staccati) e dei costoloni delle
volte a crociera, in due ambienti cui si accede dallo scannafosso della
chiesa.
Ogni
cappella era illuminata da una monofora: alcuni resti si vedono dal giardino
della canonica e nella foto qui accanto. Tutto il coro doveva essere più
alto di quello attuale, al pari del vecchio della sagrestia che ora è
più basso di due gradini; transenne con balaustrini, uno dei quali
è rimasto inglobato nella volta di una cella tombale settecentesca,
delimitavano le varie parti del presbiterio.
L'aula, tutta intonacata, aveva cinque altari per parte e tra di essi,
forse, alte lesene scandivano le pareti giungendo fino ai mensoloni su
cui poggiavano le capriate e che si vedono nel sottotetto, riutilizzati
nella costruzione settecentesca (foto sotto a destra).
Il
convento delle monache benedettine era strettamente connesso alla chiesa:
sotto l'arcone che separa la navata dal transetto si apre, e si apriva
anche allora, il coro delle monache, da cui le religiose assistevano alla
Messa. Alcuni resti di affreschi, databili intorno alla fine del XIV secolo,
si vedono ancora nel sottoscala che porta nel coro attuale ed uno, staccato,
è esposto nella sagrestia.
Il monastero, ricostruito (come si è detto)
sulle rovine morali e materiali del precedente da papa Niccolò
II, subì modifiche sostanziali nel 1368.
In tale epoca, come si vede nella pianta qui sopra, era probabilmente
limitato agli ambienti che circondano il chiostro che ebbe la forma, del
tutto eccezionale per quell'epoca, di un ottagono; ma, oltre alla sua
pianta, esso presenta altre novità come il ritmo degli archi che,
sui lati est e ovest, trova una scansione più ampia in corrispondenza
dell'arcata centrale. Sui capitelli, infine, poggiano archi a sesto ribassato
e non a sesto acuto come ci si aspetterebbe da una costruzione trecentesca.
Il piano superiore doveva essere più basso di ora: le finestre
dell'ala est sono infatti affondate nel tetto. L'architetto Ruggieri,
che come vedremo curò l'ultimo rifacimento, lasciò intatta
la struttura del piano terreno, limitandosi a chiudergli le arcate, ma
non quella del primo piano, che è scomparsa: il che ci fa immaginare
un corridoio aperto davanti alle celle, coperto da un tetto sorretto da
architravi di legno posate su colonnine.
Al centro del lato est si apriva direttamente
sul chiostro (senza chiusure, come si vede nella pianta qui sopra) la
cappella del capitolo: per quanto strano possa sembrare, ciò è
testimoniato dalla decorazione delle volte eseguita splendidamente da
Niccolò di Pietro Gerini (allievo di Giotto) nel 1387. La decorazione
delle pareti, purtroppo, si è in parte perduta quando nel 1665
fu raschiata via per far posto alle modeste tempere di Cosimo Ulivelli
e Agnolo Gori; si sono salvate le decorazioni del soffitto e la crocifissione
sulla parete est, quest'ultima grazie alla devozione di cui era oggetto
da parte delle monache che si opposero alla sua distruzione.
L'opera del Brunelleschi
Nel
1418 il Brunelleschi iniziò la costruzione della Cappella Barbadori
(quella che è posta nell'angolo a destra dell'ingresso alla chiesa
e che ospita lo stupendo affresco e la straordinaria pala d'altare del
Pontormo).
Di quella cappella, oggi inglobata nella struttura settecentesca, si conservano
i pilastri di sostegno e metà della calotta della cupola che, come
vedremo, fu poi tagliata.
La cupola si vedeva bene dall'interno della chiesa: qualcuno sostiene
il Brunelleschi l'avesse costruita senza usare armature di sostegno per
dimostrare che la cosa era possibile e convincere così i fiorentini
ad affidargli il compito del Cupolone.
Può essere del Brunelleschi anche la splendida sagrestia nuova che, nel 1470, sostituì la vecchia
della chiesa gotica. Alcune modifiche apportate nel sec. XVIII (l'abbassamento
del pavimento e l'inserimento di una corona di serafini (di modesta fattura)
nella cornice, ne avevano fatto mettere in dubbio l'attribuzione.
La cappella che è posta in simmetria
a quella del Brunelleschi, fu costruita tra il 1589 e il '90 dalla famiglia
Canigiani. La struttura della cappella fu utilizzata così com'era
dal Ruggieri che ne usò le stesse forme per nascondere quella del
Brunelleschi.
L'intervento del Vasari
Un secolo dopo l'opera del Brunelleschi
quando il Vasari (nel 1565) ebbe addossato alla facciata della Chiesa
il Corridore che portava il Granduca da casa sua (Palazzo Pitti) a quella
del figlio Francesco III (Palazzo Vecchio), si pensò di costruire
un palco all'interno della chiesa, nel quale dal corridoio si entrasse
perché i Medici potessero assistere alle sacre funzioni.
Tale palco, più o meno come quello che si vede adesso sopra l'ingresso,
doveva passare subito al di sopra della cupoletta della cappella Barbadori.
L'ingresso al Corridore, infatti, avveniva al lato del palco, sulla sinistra
della facciata, là dove passa ad una quota più alta (come
si ben vede qui accanto); ma anche se il palco fosse stato fatto alla
quota che ha là dove si abbassa, sarebbe comunque stato più
alto dell'estradosso e non vi sarebbe stato, comunque, alcun bisogno di
tagliar la cupola.
L'intervento
del Cigoli
Ludovico
Cigoli, che fin dal 1604 fu a Roma impegnato tra l'altro ai progetti per
il completamento di San Pietro, fu chiamato dai Guicciardini, forse già
verso il 1596-97, a progettare la cappella maggiore della nostra chiesa
che fu iniziata nel 1610 e portata a termine nel 1623 da Gherardo Silvani.
Il progetto del Cigoli si limitò ad incorniciare la cappella dell'altar
maggiore trecentesca, lasciandone inalterate la struttura e le decorazioni
a fresco originarie.
L'intervento dell'architetto Ruggieri, che qui sotto vedremo, ne utilizzò
l'incorniciatura in pietra serena incrostata sul fondo d'intonaco bianco,
ma operò nel coro e nelle altre cappelle del transetto modificandole
profondamente e mandando persa la maggior parte degli affreschi che le
decoravano.
Solo alcuni, staccati, sono ancora conservati nel
La
chiesa settecentesca
Alla
fine del 1735 ai Medici erano sopravvenuti i Lorena. L'architetto Ferdinando
Ruggieri ricevette allora dalle monache l'incarico di rinnovare la vecchia
chiesa gotica per renderla più adatta, secondo il gusto del nuovo
regnante, alle sue funzioni di chiesa Granducale.
Il Ruggieri era nato a Firenze verso il
1690 ed aveva goduto di una discreta considerazione come architetto alla
corte dei Medici (gli era già stata affidata la progettazione di
S. Firenze e del Palazzo Rinuccini).
Tutto fu fatto in gran fretta: l'architetto stese il suo progetto in breve
tempo e nel 1736 furono iniziati i lavori che dopo soli tre anni erano
già terminati. Si legge nella cronaca della Parrocchia: «Il
Granduca Francesco Stefano di Lorena e la sua famiglia resero obbedienza
in chiesa nostra sebbene non terminata, la mattina del venerdì
santo (1739, n.d.r.); il 12 settembre fu fatta solennemente la
apertura della nuova chiesa».
Il
primo problema che il Ruggieri dovette porsi fu quello della copertura:
un soffitto a capriate così basso e incombente sul Palco Granducale
dovette sembrargli inconcepibile: la chiesa fu rialzata e l'aula coperta
a botte. la sopraelevazione risultò utile anche alla proporzione
della facciata che, dopo l'intervento del Vasari, era poco meno che scomparsa
dietro il Corridoio.
Risolse un altro problema: i muri delimitanti la navata non erano allineati
con quelli della cappella dell'Altare Maggiore, ma anzi il loro prolungamento
cadeva a metà delle cappelle contigue (lo vedete bene se guardate
la pianta) creando un effetto prospettico poco soddisfacente per un architetto
influenzato dalla lezione del Rinascimento.
L'allineamento
fu trovato aumentando lo spessore dei muri della cappella dell'altar maggiore
e creando due palchi in aggetto rispetto al filo della navata e al termine
di questa (quelli dell'organo).
L'avanzamento di questi due corpi ebbe come conseguenza la creazione di
una specie di arco trionfale tra la navata e il transetto, coperto con
una volta a "botte" più bassa di quella della navata
tanto quanto i palchi avanzano dal filo di quella.
La navata, per aumentarne la capienza, fu
sgombrata da tutti gli altari che furono alloggiati nelle cappelle che
ebbero così a sfondare i muri laterali della vecchia chiesa in
tre punti e ad invadere il chiostro da una parte (le cui vele furono tagliate)
e la piazza dei Rossi dall'altra. Con queste modifiche il Ruggieri riuscì
bene nell'intento di creare una chiesa nuova senza dar l'impressione che
fosse l'adattamento della precedente.
Egli creò un interno in funzione
del punto di vista posto sul Palco Granducale che provvide ad "ampliare"
spostandone così verso il basso il parapetto tra le due cappelle
Barbadori e Canigiani; l'ampliamento doveva permettere ad un maggior numero
di persone di assistere alla funzione che si svolgeva ad una quota molto
inferiore: partendo da quello che era il livello originale del palco vasariano
al pari del Corridore, il Ruggieri (probabilmente) si abbassò con
una gradinata fino alla quota attuale, per ottenere qualcosa di molto
simile (per fare un esempio) al "Palco Reale" di un teatro:
gradini di legno che scendevano dal Corridoio all'attuale piano del palco,
sui quali disporre le sedie per rispondere al meglio al quesito "visibilità"
per tutti i presenti e non solo per chi si trovava in prima fila.
Dal
Palco del Granduca si diparte, ancora oggi, un comodo corridoio che, correndo
sopra la volta delle cappelle sinistre della navata e scendendo per un'ampia
scala arriva nel transetto sinistro: era il percorso attraverso il quale
l'officiante portava la Comunione al Granduca.
Questo collegamento non fu un'invenzione del Ruggieri che ce lo dovette
trovare, magari più angusto; decise, però, di sostituirne
la scala a chiocciola che vi portava con una nuova a rampe assai più
ampia e, probabilmente, più dignitosa che avrebbe potuto essere
percorsa anche dalla famiglia del Granduca.
Ma
nemmeno il Ruggieri aveva bisogno di tagliare le cupolette delle due cappelle
e, molto probabilmente, non lo fece: non gli sarebbe servito a niente,
visto che la chiesa la si vede bene soltanto dall'arcone centrale del
palco dato che la muratura soprastante le due cappelle consente solo un
angusto affaccio. Oltretutto appare naturale che il gradino più
alto della gradinata si trovasse più vicino alla quota del corridoio
sulle cappelle laterali dal quale si aveva accesso al Corridore del Vasari.
Se così è, non è dato sapere chi sia stato a trovare
il coraggio per demolire la cupoletta del Brunelleschi. Certo è
che la scaletta con pedate di travertino che adesso scende dal corridoio
al livello del Palco è un'opera del secolo scorso e che il pavimento
in listoni di legno sopra le due cappelle è diverso.
Il Palco, probabilmene, ebbe il soffitto
molto più in alto di quanto oggi non sia: la parte che si vede
dall'interno della chiesa è coperta da un solaio più recente
(forse ottocentesco) che, ricavando un'altra grande stanza al di sopra,
impedisce all'antica finestra gotica della facciata di illuminare il palco
e la chiesa.
Il Ruggieri non si limitò a portare
modifiche alla chiesa; lavorò anche all'ampliamento e all'ammodernamento
di tutto il convento che, accogliendo moltissime fanciulle della Firenze-bene
di allora, oltre che ricco ed importante che era sempre stato, era diventato
tanto grande da arrivare fino a Pitti.
Un
progetto mai realizzato
Nel
1834, Giovanni Battista Silvestri, architetto senese attivo a Firenze,
si interessa alla nostra chiesa. Il suo nome, legato alla costruzione
dell'ex villa Demidoff (che oggi si affaccia desolata su via di Novoli)
e all'avvio della vicenda per la realizzazione della facciata di S. Maria
del Fiore, lo si ritrova inciso, accanto alla data, sulla base di un modello
ritrovato nel '65 in uno dei tanti armadi della canonica.
Con quel modello l'architetto cercò
di convincere i Lorena o i Guicciardini (che ne erano i proprietari) a
completare la cappella principale del coro eliminandone la parete di fondo
(che è poi una delle tre rimaste a sorreggere il campanile) per
accedere ad un'abside semicircolare più larga del coro stesso coperta
da una semicupola decorata a cassettoni. La realizzazione avrebbe richiesto
particolare attenzione a non compromettere la statica del campanile, ma
l'effetto scenico sarebbe stato senz'altro notevole; l'abside è
senza finestre, solo un occhio aperto nel cervello della semicupola, in
quella zona indefinita di penombra, avrebbe concluso e insieme spezzato
la precisa geometria dell'ambiente.
Ma, evidentemente, non erano più
i tempi per queste proposte: i nobili fiorentini erano oramai più
attenti agli sconvolgimenti risorgimentali che alle vicende della loro
chiesa che ci resta intatta secondo il bel progetto del Ruggieri.
Marco
Jodice, Piero Degl'Innocenti |